Senza giudizio rispetto a questi insegnamenti, c’è da dire che in essi manca lo spazio per riuscire davvero a sentire quello che si prova (fisicamente e non) e a farci caso, per poterlo attraversare, per “poterci stare”, arrivando ad essere in confidenza con le nostre emozioni, a scioglierle con il nostro proprio tempo personale, chi prima, chi dopo.
Se le sensazioni fisiche e le conseguenti emozioni le cancelliamo, perdiamo un pezzo.
Di fronte ad un pianto più o meno disperato, di istinto siamo portati a consolare o a risvegliare, in ogni caso a fermare il dolore. Perché? Perché quel dolore fa sentire a noi il nostro! Quindi è la nostra paura a sentire dolore e l’illusione che non sentendolo non c’è che ci spinge a dire “non è niente!”. Non siamo abituati a gestirlo, nel senso di guardarlo in faccia; siamo piuttosto abituati a scappare dal dolore, a non osservarlo, a metterci coperchi sopra, a non vederlo. La nostra società e cultura ci ha allenati benissimo in questo. Evitare il dolore. Da sempre! Anestetizzarci e non vedere. E’ l’inizio della crescita di un individuo manipolabile.
Se invece prendiamo attitudine a rimanerci, nel dolore, ad attraversarlo e gestirlo, scopriamo e ci rendiamo consapevoli della nostra forza! In vero contatto con ciò che accade, con quello che succede, sentiamo di poterlo superare da noi, troviamo il nostro proprio coraggio e ce la facciamo.
Allora, in una o due frasi, vi invito a provare ed a darmi il feedback rispetto a ciò che sperimenterete, quello che possiamo dire per trasferire ai bambini queste due sensazioni è:
“il peggio è passato” (in questo modo sto col presente, non giudico l’accaduto, riferisco solo che l’ho visto, riconosciuto e so che è passato)
“ora io so cosa fare, perché sono grande” (non lo cancello, lo vedo, lo legittimo e trasferisco sicurezza, cura e protezione; in queste parole c’è tutto quello che occorre).
E poi tutto il resto. Per tutto il resto intendo tutte le eventuali domande (dove ti sei fatto male, cosa senti nel corpo, in che parte, ecc.) specialmente domande che invitino il bambino a prendere contatto col suo corpo e a sentire fisicamente le sensazioni di dolore ed anche tutte le eventuali soluzioni (vuoi fermarti, puoi riprendere, cosa ne dici se proviamo, ti prendo un cerotto, mettiamo dell’acqua, vai a bere un sorso d’acqua, siediti un momento e vediamo come va, che ne dici se proviamo a camminare, muovere, ecc. la parte che ti fa male,...).
Un grazie particolare ai collaboratori che mi hanno aiutato volentieri a fare luce su un aspetto apparentemente piccolo della quotidianità degli allenamenti, professionisti uno ad uno sensibili a “crescersi” loro stessi per primi, contribuendo passo passo a modellare uno sport della persona, autentico, coinvolgente, presente e pieno di forza.
Tutte cose che lo sport possiede già in sè. Tutti noi per questo sport.