Questa esperienza con il gruppo accade in campo, durante il primo quarto
d’ora di seduta. Il mio lavoro è parte integrante dell’allenamento, condiviso e
compartecipato dall’allenatore che, per quanto mi riguarda, è parte della
squadra.
In particolare questa è una sperimentazione trasversale, applicata a
tutte le fasce di età, quindi, indifferentemente, a tutte le categorie di
appartenenza (da Piccoli Amici ad Allievi).
Esattamente come la preparazione atletica dell’apparato motorio dispone la
squadra a sostenere i ritmi della prestazione, l’allenamento emotivo, passato
attraverso un movimento comunque del corpo, dispone i componenti alla scoperta
di quell’aspetto non tangibile che rende, in campo, tutto quello che non
è tecnica, non è tattica e non è gioco.
In particolare affronto questo esercizio con il gruppo dei portieri, un
ruolo che definire “particolare” per il calcio è riduttivo e poco esaustivo, ma
spessissimo così individuato, per la sua diversità, per la sua singolarità, per
la sua posizione estremamente peculiare, contraria, differente e talvolta
distante dal resto dei ruoli. La cosa certa è che, superati tutti noi giocatori
disposti in campo, l’estremo incontro dell’avversario avviene con lui, col
nostro portiere, a cui deleghiamo (Dare) totale fiducia per l’ultima difesa, da
cui prendiamo (Ricevere) per tutto il resto del tempo la sicurezza dei suoi
richiami, delle sue allerte e dei suoi incitamenti.
“Da portiere, allora, sono
consapevole di avere la fiducia dei miei compagni?
Da cosa me ne accorgo?
Da portiere, allora, infondo
sicurezza?
Da cosa me ne accorgo?
Nell’arco di un tempo
brevissimo il mio singolo errore ha spesso un impatto altissimo: sono sicuro di
mantenere anche in quel momento la stessa stima da parte loro? La so ricevere
(Ricevere)? Posso continuare a dare (Dare) loro sicurezza anche dopo questo
evento?”
Per trovare una risposta a queste domande fuori dagli schemi dell’elaborazione
mentale e rimanendo solo sul sentire, quello che mi permette di prendere
contatto diretto con il mio vero essere, con la mia emozione, occorre passare
attraverso un’esperienza pratica.
Faccio togliere scarpe e guanti a tutti e propongo di scambiarli con un
compagno: lo strumento più potente che abbiamo per comprendere l’altro è quello
di mettersi … nelle sue scarpe! Le sensazioni più strane sono uscite dal
camminarci e dal provare a toccare compagno o pallone con guanti altrui: “non pensavo”, “mi sento costretto”, “mi fa un
certo che”, “particolare..”, “che larghe”, “sono tutti rotti!!”, “ma come si
fa??”.
Forse l’empatia non basta a renderci una squadra migliore, ma di certo è
l’attitudine più utile di fronte alla tendenza narcisista di guardare solo il
mio: il mio compito, il mio ruolo, il mio errore, il mio meglio. Forse,
sincronizzarmi praticamente con la storia del mio compagno mi aiuta a sentire
quanto è naturale tentare tutte le strade possibili per migliorare la
comprensione di ciò che accade, anche in partita! Forse sentire il costo e il
beneficio di un’azione non personale ma di squadra, mi aiuta a valutarne le
conseguenze in relazione a tutti e non solo a me stesso.
Indossare per un po’ le scarpe e i guanti di un mio compagno può sembrare
un gioco … privilegiare l’esperienza di entrare nel suo vissuto, silenzioso
testimone di una storia diversa dalla mia, di fatica o di coraggio, di speranza
o di stanchezza, ha a che vedere col rendermi più grande, col partecipare alla
creazione di un gruppo vicino a se stesso e unito davvero.